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11 luglio 2012 - Nella festa di San Benedetto parliamo del Monaco

autore: P. Ireneo Hausherr s.j.

Per celebrare la festa di san Benedetto riprendiamo da un vecchio numero di Monastica (del 1972) alcuni brani di una conferenza che il nostro grande amico, il P. Ireneo Haussher sj, donò alla nostra comunità con la sua originalità, con la sua semplicità, con la sua profonda spiritualità.

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Che cosa dirò di San Benedetto nella casa di Santa Scolastica? San Benedetto è padre dei Monaci. Non è forse questa l'occasione di riflettere ancora una volta sulla parola: «monaco»?
Cosa significa «monaco» ? Sta nel Vangelo? Veramente non so se la parola «monacos » sta nel greco del Vangelo - non ho guardato, ma certamente se vi si trova non significa monaco, probabilmente non si trova nemmeno.
« Monacos » che cosa significa? Colui che è solo e nient'altro. E lo stato di colui che è solo si chiama solitudine. Ma mi domando a priori che cosa ha da fare questa solitudine con il Vangelo.
Il Vangelo è una buona novella. La buona novella esclude la solitudine poiché deve esserci uno che porta la buona novella e la porta a un altro, fa già due; possibilmente la porta a molti altri, e poi c'è qualcuno che prima di far portare questa buona novella l'ha vissuta: dunque si tratta di molte persone. Che cosa dice il Vangelo? Qual è la grande regola, la grande caratteristica del Vangelo? Tu amerai il Signore Dio tuo... ecc. voi lo sapete, e il tuo prossimo cioè tutti quelli che sono figli di Dio come noi. Allora la solitudine è una solitudine popolata come nessun paese lo è mai stato! Può forse chi è solo amare? Se stesso, sì, ma non è evangelico amare se stesso. Non basta per essere cristiano. Bisogna amare l'altro, e Dio è l'Altro, e il prossimo è l'altro.
E' dunque difficile dare a questa parola «monacos» «solitario» un senso evangelico. Tanto il Vangelo, quanto il Nuovo Testamento insistono così frequentemente sul senso della vita in comune, della vita vissuta insieme e non da soli. E' essenziale questo: non c'è vita cristiana senza comunione, senza società, senza unione con Dio e con Gesù Cristo e con tutti quelli che per Gesù Cristo sono diventati figli di Dio.
Allora quando diciamo monaco non vogliamo indicare un solitario, uno che vive separato da tutto il resto. Siamo cristiani, al contrario, perché viviamo in unione con l'altro chiunque sia.
Eppure questa parola aveva un significato per chi ha dato questo nome a quelli che si sono chiamati poi monaci. Io non so se sono i monaci stessi che si sono dati questo nome o la gente che vedendoli diceva: costui è un tipo singolare, vive da solo e lo chiamava « monacos ». Così come i cristiani, essi non si sono dati da loro stessi questo nome, secondo quel che dice il libro degli Atti: in Antiochia la gente li chiamava così perché parlavano sempre di Cristo.
Ma fuori di questo senso, per così dire, materiale, di solitudine, di separazione da tutto il resto, la parola «monacos-monaco» ha un altro senso. San Basilio - voi sapete che San Basilio è l'autorità suprema per San Benedetto, lo sappiamo dall'ultimo capitolo della Regola - San Basilio ha criticato questo genere di vita eremitica. Non la voleva per due ragioni: primo perché chi sta solo non ha nessuno per aiutarlo e per aiutarlo a correggere i propri difetti: i difetti quando si è soli possono prosperare magnificamente o turpemente, se volete; secondariamente non ha nessuno da aiutare. In altre parole non può né ricevere, né dare niente a nessun altro. Non esiste, per colui che è unicamente solo, la carità. Ora la carità è tutto. Dio è carità. E noi siamo figli di Dio nella misura esatta della nostra trasformazione in carità.
A San Basilio dunque non piace questa parola «monacos». Tuttavia, attraverso i secoli, si è mantenuta e si mantiene - poco importa la parola. Cosa significa allora monaco nel senso autentico di San Basilio, che cosa deve significare per noi oggi «monaco»?
San Basilio ci propone un' altra parola: «monotropos». Vi è in questa parola ancora «monos-solo », ma non solo assolutamente e «tropos» significa giro-girare, girare non sempre, girare per trovare la buona direzione: monotropos è colui che va in una sola direzione. Una volta che l'ha trovata va sempre in quella direzione e mai esce da quella direzione.
Dunque questa parola ha un senso vero; c'è qualcosa di unico in noi, come c'è qualcosa di unico in Dio. Quando recitiamo il Credo diciamo: Credo in unum Deum. Cosa vuol dire?
Vuol dire un dio solitario? No, non vuol dire solitario. Dio è uno, ma non solitario. Sono tre Persone e fanno una comunità superiore e più perfetta di tutte le altre.
Dunque che cosa vuol dire monaco? Vuol dire questo: avere una sola direzione. Che cosa è una direzione? E' la via verso un solo scopo, una sola meta, un solo fine. Il monaco è colui che ha un solo fine, cerca una sola cosa e per questo è chiamato monaco.
Ma tutti in tutti i paesi del mondo, in tutte le professioni, in tutti i mestieri, in tutte le occupazioni che esistono su questa terra devono andare in una sola direzione: nessuno è escluso sia muratore o cardinale camerlengo. Perché allora i monaci si sono chiamati così, visto che anche i cristiani devono avere un solo fine «Dominum Deum tuum diliges et illi soli serves ». Siamo o siete monache o monaci perché come tutti i cristiani tendete a quest'unico fine.
Ma vi sono molte vie: alcune conducono al fine; altre non vi conducono. Dobbiamo abbandonare quelle che non vi conducono e per quelle che vi conducono abbiamo la scelta.
Alcuni scelgono la vita monastica. E quale è la via speciale del monaco? Sono cose che conoscete meglio di me, ma fa bene talvolta sentirle da qualcuno che le ha considerate dal di fuori e non dal di dentro. Qual è la via dei monaci tale quale la volevano San Benedetto e San Basilio?
Qualcuno anteriore a San Benedetto e non a San Basilio ha riassunto tutto in tre parole. San Arsenio, il solitario d'Egitto, ci dice che ha sentito queste tre parole da un Angelo. Poco importa che sia un Angelo, purché sia vero e se è vero ciò che m'importa è capirne il senso. Ecco le tre parole: Arseni, fuge, tace, quiesce.

Tre cose: fuggire, tacere e conservare la pace, la quiete dell'anima. Da qui viene tutta la differenza tra semplici cristiani e monaci, perché tutti debbono fuggire certe cose, ma non tutti debbono fuggire le stesse cose. Tacere tutti debbono tacere, almeno talvolta. «C'è un tempo per parlare e c'è un tempo per tacere», dice l'Ecclesiaste, non fosse altro che per dormire (sebbene alcuni parlano anche mentre dormono), e poi quiesce, conservare la pace.
Fuggire voleva dire fuggire il consorzio umano, fuggire la società umana, da qui sono nati gli eremiti. E forse per qualcuno questo fuggire è diventato quasi uno scopo, non più un mezzo: è un errore. L'eremitismo non è uno scopo. La vita eremitica non è fine, è un mezzo e nient'altro che mezzo. E' un mezzo legittimo nella misura in cui è mezzo e non ostacolo per il fine comune della vita cristiana che è somiglianza a Dio, vita nella carità. Spetta a me di fissare la regola della mia convivenza o della mia separazione. La devo fissare evidentemente secondo le esigenze della carità, della mia salute e del bene altrui. Ciò nondimeno devo in certa misura fuggire.
Tacere. Si tace poco adesso. Gli uomini oggi passano il tempo piuttosto chiacchierando, cantando, canterellando e non so che cosa ancora. E cercano tuttavia il silenzio. E si è talmente abituati al fracasso, al rumore, al multiloquio che il chiasso è divenuto un bisogno, ma non è un bisogno autentico. Allora se tutti, almeno in certi momenti, almeno la notte cercano il silenzio, con quale diritto rimproverarmi di cercare il silenzio o di praticare il silenzio? A chi spetta fissare il limite, la misura di questo silenzio? Spetta a me. Ma quando dico: «Spetta a me », non voglio dire che spetta a me ogni giorno, ma spetta a me una volta per tutte: ho scelto una volta per sempre. Spetta a me di adottare una regola fatta da un altro, che io approvo e che io prendo come buona per me. Ma tutti hanno bisogno di solitudine e di una certa misura di silenzio.
E di quiete hanno bisogno tutti? Abbiamo tutti assoluto bisogno di quiete. Quale quiete?
Non la quiete esteriore: quella è assicurata dalla fuga e dal silenzio, ma della quiete interiore, la quiete dell'anima, la quiete della mente, del cuore, dei nervi, della fantasia, della pace interna che alcuni forse non hanno mai conosciuta, ma che basta averla provata anche per un attimo per capire che è la cosa più desiderabile di questo mondo. Allora questa quiete è necessaria per tutti i cristiani, è lo scopo di tutte le virtù, di tutte le privazioni, di tutte le mortificazioni, è lo scopo di tutto. Dunque la cosa più cristiana è proprio questa quiete. E il silenzio? Nella misura della sua utilità per questa quiete. E la fuga? Nella misura della sua utilità per la pace dell'anima.
Allora, dirà qualcuno: ma tutto questo è un ripiegamento su se stessi, è ricerca della propria utilità, del proprio bene. Sì, ma non per gioirne da soli, ma proprio per essere utili agli altri.
Un uomo che non ha questa pace interiore, quale bene può fare? Può comunicare la sua propria inquietudine, ma per comunicare, per irradiare la pace bisogna averla.
Vi sono uomini o donne di età avanzata che forse non dicono una parola, il tempo delle prediche è passato per loro, e tuttavia ci meravigliamo perché sono raggianti di pace e di serenità.

Il Signore, il nostro Salvatore è venuto per farci salvi, per salvarci da tutte le nostre malattie, le nostre infermità, le nostre nevrosi, le nostre nevrastenie, le nostre angosce; per insegnarci a cercare questa quiete interiore, questa sanità totale. «Pacem meam do vobis ». Il nostro Vangelo si chiama proprio Evangelium pacis.

Così rileggo, per finire, la fine del capitolo l della Regola di San Benedetto: «La fortissima razza dei cenobiti».
l cenobiti, razza fortissima, coraggiosissima, valorosissima, hanno il senso dell'utilità con la volontà di essere utili non soltanto a se stessi, ma al popolo cristiano intero, mostrano la loro forza nel fuggire ciò che è necessario di fuggire, ciò che hanno deciso di fuggire, di dover fuggire.
Mostrano la loro forza nel tacere, non hanno bisogno di chiacchiere perpetue per sopportare la vita: sopportare il silenzio è un segno di forza, un grandissimo segno di forza. I cenobiti sono capaci di tacere anche per settimane intere, ma sono anche capaci di parlare e senza paura e senza falsi rispetti umani,
E mediante tutto questo doppio coraggio di fuggire e di rimanere, di tacere e di parlare, mantengono e aumentano la quiete del loro cuore, la quiete interna, la salute perfetta della loro mente e della loro anima e del loro cuore.

Così voleva e pensava San Benedetto, così voleva e pensava San Basilio, così pensava e voleva e insegnava il Signore Gesù e così faceva.
Talvolta è fuggito, si dice, nella solitudine, quando lo hanno voluto fare re. E' fuggito per pregare notti intere e poi è tornato alla folla, ha insegnato e ha conversato nella maniera più semplice e più cordiale con i suoi amici ed anche con i suoi nemici. E ha taciuto anche quando tutti aspettavano che parlasse; Jesus autem tacebat. E la quiete? L'ha avuta? Sì, talmente ha avuto la pace che la grande promessa ai suoi quando stava per lasciarli è: «Vi dò la mia pace ».
Il Signore ci dia per intercessione di San Benedetto, di San Basilio e di tutti gli altri, la Sua pace di tal maniera che rimanendo Sua sia vostra, sia nostra e sia per ciascuno mia.


(Da una conferenza del P. Ireneo Hausherr s.j. nella festa di San Benedetto).

amministratore (2012-07-08), ultima modifica: 2015-11-22 (amministratore)
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