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LECTIO DIVINA PER SANTA SCOLASTICA - 10 febbraio 2019

autore: Monastero

Vi proponiamo la Lectio Divina sulla prima e la seconda lettura di Santa Scolastica tenuta quest'anno dalla nostra Madre emerita Francesca. Il Vangelo è stato commentato da sorella Susanna della fraternità di Bose.

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Prima lettura Cantico dei Cantici 8,6-7

La prima lettura è tratta da quello straordinario libro che è il Cantico dei cantici: già il suo nome è straordinario perché nello stile ebraico equivale a un superlativo: il canticissimo, il cantico più cantico di tutti.
Questo libro straordinario è un libro d’amore e canta con linguaggio ardito e veristico un amore umano, umanissimo, l’amore di un giovane e della sua innamorata. Un libro in cui si parla di baci, di carezze, di abbracci, di desideri, di sogni, di incontri desiderati e ricercati, di ammirazione della bellezza anche fisica dell’amato e dell’amata.
Chi ha scritto questo libro (un rabbino? C’è chi dice: una donna!) sa che l’amore nuziale è un dono di Dio all’uomo, tanto che nella cultura ebraica il matrimonio è obbligatorio e il celibato volontario è una scelta eccezionale e rara.
Ma sa anche che molti testi profetici si servono del vocabolario nuziale per descrivere l’amore di Dio per il suo popolo, per tutti gli uomini che egli ha creato e salvato. Eppure in questo libro il nome di Dio è assente e ne troviamo soltanto un cenno abbreviato (jah) in un aggettivo che vuole definire l’amore (nel nostro testo).
Tale libro biblico è stato nei secoli pascolo e nutrimento per generazioni di monaci e monache, che ne hanno gustato il sapore e scritto commentari, ancora in uso.

La nostra piccola Lettura parla di un sigillo. Sigillo è un oggetto di metallo o di pietra, per timbrare, che serve per identificare un documento, per attestarne la veridicità. Un oggetto che si porta al dito o al braccio, o appeso al collo, o al taschino della giacca (sul cuore), dunque attaccato alla persona, quasi a identificarsi con essa. Allora «ponimi come sigillo» significherà mettimi su di te, fa’ di me una sola cosa con te.
Ma come il sigillo ha in sé la forza di esprimere qualche cosa di definitivo, irreversibile, siglato per sempre, così l’Amore, con la sua tenacia, la sua inflessibilità e indistruttibilità, vince la realtà più tenace che è la Morte. E con la Morte è vinto insieme anche il Regno dei morti, lo Sheol, l’Inferno.
L’associazione del concetto di fuoco con quello di amore è tipico di tutte le culture: la passione è ardente, l’accendersi dell’eros è un mistero mirabile come la nascita del fuoco. La stessa Bibbia fa sprizzare il fuoco dalla gelosia: «JHWH, tuo Dio, è fuoco divorante, un Dio geloso!» (Dt 4,24).
E questa fiamma è una fiamma divina: quasi di nascosto, come un sussurro, vediamo, unita all’aggettivo per qualificare la fiamma, l’unica menzione di Dio in questo mirabile poema: «fiamma di Dio, jah».
Ė strana l’assenza del nome divino nel Cantico; tanto più se vogliamo leggerlo come metafora della relazione di Dio con Israele. Ma sembra che alla fine del poema si voglia sollevare il velo del mistero che si voleva rivelare, quello dell’amore tra Dio e Israele, tra Dio e il suo popolo.
Che cosa potrebbe colpire, annullare questa «fiamma divina»? che cosa può vincere contro il fuoco? Certo: l’acqua! Ma no, neppure le grandi acque, metafora del caos primordiale, riescono a estinguere un tale fuoco. L’Amore riesce a partecipare della stessa forza, divina: «nessun genere di difficoltà, nemmeno quelle capaci di distruggere l’intera creazione può soffocare l’amore». Anche le potenze ostili della storia sono quasi arrestate dalla fiamma inestinguibile dell’Amore, sono prosciugate e distrutte.

«L’amore è forte come la morte. La resurrezione è l’essere più forte dell’amore sulla morte. Qualora la forza dell’amore per l’altro fosse in un qualche luogo così intensa da potere mantenere vivo non soltanto il suo ricordo, ma lui stesso, si sarebbe raggiunto un nuovo stadio di vita... cioè la vita definitiva, che si è ormai lasciata alle spalle il dominio della morte. L’amore genera immortalità, e l’immortalità scaturisce unicamente dall’amore. Colui che ha amato per tutti è il fondamento dell’immortalità di tutti. Per questo la sua resurrezione è la nostra vita: se egli è risorto, anche noi risorgeremo, perché l’amore è più forte della morte. Ma il modo della nostra immortalità dipenderà dal nostro modo di amare» (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 2005, p. 292ss).
l canto della Sposa del Ct si chiude in una specie di anti-climax, affidato a un aforisma sapienziale che, però, non è ‘privo’ di una sua forza dato che cerca di opporre Amore e Denaro, un’altra coppia antitetica, classica in tutte le letterature sotto le sfumature e le prospettive più diverse.
È, perciò, degno di disprezzo chi si illude di considerare l’amore come merce di scambio o come oggetto.
Il tema fondamentale resta, invece, invece, quello della preziosità suprema dell’amore, irraggiungibile a livello economico, non barattabile anche col più alto bene, come non lo è la vita, la sapienza, l’intelligenza e la felicità. E può anche apparire il motivo della gratuità dell’amore che non può essere oggetto di scambio con una sua quotazione. Altrimenti, se questo avvenisse, la persona .sarebbe umiliata, svilita la stessa sessualità., l’amore ridotto a caricatura di se stesso. Chi vuole «comprare» l’amore, in realtà compra solo un oggetto sessuale e umilia se stesso e l’altra persona divenendo un essere spregevole.

A questa Parola di Dio che abbiamo letto e pregato, risponde il nostro salmo con la descrizione di una festa nuziale: ma questa figlia del re è proprio la nostra Santa che entra nel cielo nel giorno del suo Transito.


Seconda Lettura (1Gv, 4,7-16)

Anche qui c’è Amore. Ma in un linguaggio non più metaforico e per immagini, come nel Cantico, ma in termini teologici e spirituali.
Il testo biblico più famoso sulla carità è certamente il capitolo 13 della prima lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinti, ma potrebbe sembrarci un po’ troppo moralistico, mentre qui vediamo un canto di amore e di gioia.
Al di là di ogni discussione su chi sia veramente l’Autore del testo sacro, se Giovanni, o quale Giovanni, o chi altro, noi leggiamo come mittente un «noi», dunque una comunità in comunione che scrive ad altra comunità per invitarla alla comunione. E questa comunione sarà fonte di gioia perfetta, totale, completa; dunque il messaggio è un invito alla gioia.
Questo «noi», che scrive, vuole comunicare una sua esperienza straordinaria: egli ha visto il «Verbo della Vita», e ci racconta che ha ascoltato la sua Parola, che l’ha visto con gli occhi, che lo ha toccato con le mani; dunque un testimone oculare completamente affidabile di un evento, che coinvolge tutti i nostri sensi e che è per noi la «vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi», il Signore Gesù.
Ecco dunque la causa della gioia e comunicarla per lo Scrittore è una festa che dà colore a tutto il messaggio.

La prima definizione che il testo ci dà di Dio è che «Dio è luce e in lui non c'è tenebra alcuna » (1,5). Quella luce che, secondo lì espressione del Prologo del IV Vangelo, era «la luce vera, quella che illumina ogni uomo». (Gv 1,9 e che le tenebre non hanno potuto vincere.
Poi troviamo una seconda definizione: Gesù Cristo Dio è giusto
«abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto» (2,1).

Infine ecco la pericope della nostra Lettura, con la grande, definitiva definizione: «Dio è amore». Leggiamolo parola per parola. Ogni parola è una perla preziosa.
-Carissimi- alla lettera significa amati: sono cari perché oggetto di amore.
-amiamoci gli uni gli altri – perché amati dovremo a nostra volta amare, non si può buttar via l’amore; se lo si è ricevuto bisogna rimanere nel suo ambito e viverlo.
-perché l'amore è da Dio – chi ci ha amato è Dio, da Lui lo abbiamo ricevuto, a Lui lo rendiamo.
-chiunque ama è stato generato da Dio – ed è questo amore che ci fa figli. Non possiamo dimenticare la forte asserzione del Prologo giovanneo: «A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1:12-13 ).
Giovanni suole parlare di una vera generazione che ci fa figli, mentre san Paolo preferisce parlare soltanto di una adozione a figli, di una figliolanza adottiva.

-e conosce Dio – sappiamo bene che nel linguaggio biblico il verbo conoscere ha una pienezza di significato molto superiore a quello che ha nelle nostra lingue. Per la Scrittura conoscere non è soltanto una operazione intellettuale, ma coinvolge tutta la persona, cervello e cuore, mente e sentimento, fino a significare in alcuni casi persino l’unione sessuale (cf. Gen 4,1, Adamo conobbe Eva sua moglie)

-perché Dio è amore – conoscere Dio dunque è conoscere la sua realtà, e scoprire in tale asserzione una verità molto alta e tanto semplice: «Dio è amore».
La rivelazione cristiana viene condensata in questa affermazione solenne, che l'autore si sente di ripetere due volte (v. 8 e 15), per indicare che in questo nome si condensa la rivelazione 'dogmatica', da una parte, e si fonda ogni 'morale', dall'altra.
La semplicità, essenziale e solenne, rende questa definizione una delle pietre fondamentali e preziose di queste lettere e dell'intera opera giovannea e può esserne riconosciuta, in qualche modo, come la sintesi e un punto di arrivo.
Non solo si afferma un'azione in Dio, il suo essere 'amante', capace di coinvolgere nel suo amore tutte le cose, di creare e far scaturire tutte le cose dal suo amare. Si dichiara che questa realtà è l'essere stesso di Dio, il quale è questo e non può essere altro.
Tutte le descrizioni precedenti, tutto lo sviluppo di una storia di salvezza, che, secondo la stessa tradizione biblica, poteva vedere 1'alternarsi di 'atteggiamenti' e 'sentimenti' (per quanto ci è consentito applicare questi termini così umani alla realtà di Dio), viene riassunta e spiegata in questo modo. È una chiave di lettura, che viene offerta e alla luce della quale tutto può acquistare una più evidente collocazione.
Potremmo aggiungere che il dogma trinitario ci mostra in Dio una circolarità di relazioni che non può essere che amore.

Sentiamo il commento di sant’Agostino:

Non so come Giovanni avrebbe potuto fare l'elogio della carità con parole più sublimi di queste: «Dio è amore» (1Gv 4,16). C'è qui una lode tanto breve eppure tanto grande:. breve nelle parole, grande nella penetrazione. Si fa tanto presto a pronunciare la frase: «Dio è amore »! Una frase breve, di un solo periodo, ma se la soppesi, quante cose contiene! «Dio è amore »; e Giovanni aggiunge: «Chi resta nell'amore, resta in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,16). Dio sia la tua casa e tu sii la casa di Dio; resta in Dio e che Dio resti in te.

-In questo si è manifestato l'amore di Dio in noi - E qui non possiamo non tornare al testo famoso di Gv 3, «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16).

La missione di Gesù da parte del Padre, il suo invio nel mondo, è la rivelazione di cosa si debba intendere per amore, di quale sia il modo che ha Dio di amarci. Il Figlio appare, perciò, la realtà più preziosa che il Padre dona. Dio ha un amore verso di noi che resta, che prende dimora presso di noi - «l'amore di Dio in noi»).
- perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. - E in noi troviamo la presenza del suo amore, perché in noi troviamo la Vita, ci scopriamo vivi in virtù del Figlio che il Padre ci ha mandato.
Non alludiamo soltanto all'esperienza storica di Gesù di Nazareth.: l'invio del Figlio è una realtà che è cominciata nel passato, ma che è ormai tuttora presente. È appunto questo invio del Figlio, che dura sempre, che fa vivere il credente e gli fa gustare l'amore di Dio.
I grandi segni dell' amore di Dio appaiono, per Giovanni, da un lato l'Incarnazione e dall'altro la Redenzione, che egli coglie, però, con modalità piuttosto diverse. Mentre l'Incarnazione è un atto tuttora presente, che permea e costituisce la vita stessa del credente, la Redenzione, la salvezza dal peccato, è stata operata una volta per sempre, nella persona di Gesù.
Nell'uno e nell'altro mistero, di cui Gesù è Rivelatore e realizzazione, appaiono protagonisti il Padre che manda e noi in qualità di destinatari.
È bello che, in questi passi, l'autore non riesca ad usare il «voi», che in altre parti utilizza: egli è necessariamente coinvolto, non tratta di cose imparate e non vuole fare il maestro saccente, ma vuole comunicare e condividere il senso della vita comune.

- se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri.
Ed è l'amore ricevuto che rende capaci anche noi di amore, che fa dell' amore reciproco un debito, nei confronti di un Dio amante.
Se nella prima parte della pericope era protagonista la rivelazione oggettiva di Dio-amore, realizzata nella missione del Figlio, nella seconda protagonisti siamo noi, la nostra risposta nella fede all'amore ricevuto in Gesù. Tanto l'aspetto oggettivo che quello soggettivo della rivelazione si compongono, perciò, insieme mediante la carità vissuta da parte della comunità

-Nessuno mai ha visto Dio - L'amore reciproco viene proposto, al v. 4,12, anche come soluzione di una delle «difficoltà» che angustiano l'antica alleanza. Di fronte al forte desiderio di vedere Dio, non solo si poneva il fatto di non riuscirci, ma ne veniva dichiarata l'impossibilità.
Non si riesce a contemplare ciò che è motivo e scopo di tutta l'esistenza, ma, pare dirci l'autore, anche senza vedere fuori di noi, ci è dato di vivere l'immanenza reciproca. È questo tema, caro a tutta la tradizione giovannea, che richiama un rapporto che, pur non essendo di 'visione', è però di profondissima intimità.
Ed è l'amore reciproco che lo rende possibile. Il Dio invisibile si fa tuttavia sperimentabile, in un itinerario di crescita, che conduce a pienezza il suo amore in noi.
Per quanto gli diamo la possibilità di esprimersi, di offrirsi, esso cresce nella nostra persona, ci coinvolge e ci conduce a perfezione in virtù del suo Spirito.
-In questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha donato il suo Spirito - Ancora è lo Spirito ad essere indicato come segnale, criterio dell'immanenza reciproca tra noi e Dio. Dio dona il suo Spirito non a tutti, ma là dove è vissuta una reciprocità di amore. Il Figlio è inviato nel mondo perché sia salvezza per tutti. L'accoglienza di lui, nell'amore reciproco, rende possibile l'accoglienza dello Spirito e la vita nell' amore che lui stesso genera. Un dono 'selettivo', che dichiara, perciò, le situazioni in cui la reciprocità è vissuta. Non si tratta tanto di un criterio alla portata di tutti, chiaramente riscontrabile all'esterno, quanto di una nostra verifica personale.
Non sembra opportuno tradurre «si conosce» al v. 13, ma custodire la forma letterale «conosciamo», perché è questo atteggiamento di verifica e di ascolto sincero e profondo che viene in noi sollecitato.

-E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo - L'autore, a questo punto, con tutta la forza e l'autorità della testimonianza apostolica, professa la sua fede. In parallelo a quanto già detto (vv. 9-10), richiama la missione del Figlio, ma coinvolge in essa la sua testimonianza personale.
Come già nel prologo, il salto della fede è quasi immediato.
Nell'aver visto Gesù viene identificato, per l'autore, l'aver «visto» la missione del Padre. Se pure «Dio nessuno l'ha mai visto», «noi l'abbiamo visto».
La certezza della lettura di fede dell' esperienza di Gesù è tale da corrispondere, per l'autore, ad una esperienza diretta dell' azione divina. E come è vista la missione, ne è vista anche l'efficacia. Il Figlio è inviato nel mondo come «salvatore del mondo».

-Chiunque confessa che Gesù è il Figlio di Dio – Ė essenziale il riconoscimento di Gesù quale Figlio di Dio, quindi dell’Incarnazione. Ed è questo riconoscimento, nel segno della fede, che mette in rapporto con l’amore di Dio.

- E noi abbiamo conosciuto - Ancora l’esperienza personale, indimenticabile , dell’apostolo che ha visto e ha creduto e può ormai confermare, per la seconda volta, che «Dio è amore» e che questa fede consente di vivere coinvolti nello stesso mistero dell’amore trinitario.



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