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Valore emblematico della conversione di S. Paolo

autore: Card. Anastasio Ballestrero, Saulo – Paolo, S. Agata sui due Golfi 1985

Nella chiesa antica e soprattutto nelle spiritualità emerse dal monachesimo, la conversione di S. Paolo è sempre stata considerata non soltanto un avvenimento riguardante l'Apostolo, ma un avvenimento emblematico, significativo cioè per tutti i discepoli del Signore.
Questa idea ha trovato poi profonde risonanze negli itinerari spirituali dei secoli successivi. Anche la spiritualità medievale ha fatto di questa conversione uno dei suoi cardini per illuminare e penetrare il mistero e la necessità della conversione cristiana.
Nella vicenda di Paolo alcuni aspetti non possono essere assolutamente trascurati.

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Paolo è impegnatissimo nel suo zelo per la legge di Mosè e per l’alleanza del popolo eletto. Impegnatissimo! Con un fervore che lo rende addirittura aggressivo, violento, furioso. Sta cavalcando e pregusta già la sua vittoria: mettere le mani sui cristiani e ridurli finalmente al silenzio, perché si perda la memoria di quel nome: il nome di Gesù!
Nessuna disposizione soggettiva e meritoria per una conversione a Cristo, anzi il contrario. E in questa situazione ecco l'avvenimento nuovo, il "fattaccio", potremmo dire; d'improvviso quest'uomo è disarcionato, è reso cieco e brancola nella polvere. È atterrato da una potenza più forte di lui; è accecato da una luce più forte della sua; è là, nella polvere. Questo aspetto di violenza emerge veramente nella conversione di Paolo, che in questo momento è un aggredito, lui che è tutto vibrante perché, come aggressore, pensa di essere tra poco vittorioso. E invece ecco cambiate le parti; è lui un aggredito, lui un sorpreso, un travolto. Si rende conto che chi lo ha gettato a terra e sconfitto è una potenza, è Qualcuno! Tanto è vero che domanda: "Chi sei!" "Io sono quel Gesù che tu perseguiti!”.
Il Signore non usa preamboli col suo futuro apostolo: lo stonca nel momento in cui è soprattutto il suo avversario e non fa lunghi discorsi per persuaderlo: "Io Sono quel Gesù che tu perseguiti!".
La dichiarazione è perentoria e la grazia della conversione così repentina e così gratuita che mentre fa di Paolo uno sconfitto, diventa ragione di docilità e di obbedienza.
"Signore che cosa vuoi che io faccia?". Preso da Cristo, invece di sentire aumentare il furore, diviene un vinto, un soggiogato dalla grazia. "Signore, che cosa vuoi che io faccia?".
Questa immediata disponibilità del Paolo atterrato, accecato, nella polvere, è qualcosa di umanamente inspiegabile. È il dono della conversione, è il frutto di una sconfitta che sta diventando il principio della sua vittoria o meglio della vittoria di Gesù su di lui.
"Io sono colui che tu perseguiti!".
"Signore, che cosa vuoi che io faccia?"
Osserviamo attentamente ciò che il Signore dice a Paolo: "Va e presentati...". Ecco, Paolo è invitato a presentarsi a qualcuno che non è "qualcuno": è la Chiesa di Gesù, proprio quella di cui vuole addirittura scalfire le radici e distruggere la presenza.
E così, nella luce di quel Cristo che non vede e che lo acceca, Paolo si presenta alla Chiesa, che lo accoglie con tutte le umane, comprensibili preoccupazioni: "Ma questo è il persecutore! ...".
È il Signore che previene, calma le paure, elimina le diffidenze: "Di questo Saulo, farò un vaso di elezione".
Nella grazia di tale conversione è coinvolta, illuminata e convertita anche la comunità.
Paolo crede a quella voce che lo atterra, ma anche la Chiesa crede a quella stessa voce che le dà garanzia su Paolo.
Il mistero della conversione, nella sua stupenda gratuità e potenza, coinvolge tutti, non isola Paolo, che offre alla comunità cristiana un modo prezioso di crescere, di irrobustirsi nella fede e di dilatarsi.

Queste considerazioni possono benissimo essere trasferite nella nostra vita: la conversione non è un avvenimento puramente intimistico, individualistico o soggettivo. La conversione cristiana ha altre dimensioni; ha Cristo come protagonista prima di tutto, ha l'uomo come destinatario di una grande grazia, ma ha la Chiesa, vorremmo dire, come spazio affinché questa grande grazia, mentre salva un uomo, diventi arricchimento, tesoro prezioso per tutta la comunità.
Sono verità stupende che meritano di essere contemplate, assimilate, rese certezze interiori; sono prospettive che si aprono in maniera sconfinata anche per la nostra vita.
Ecco dunque Paolo consegnato alla Chiesa che gli ridà la luce: egli vede nuovamente, ma i suoi occhi, conosciuta la sconfitta della cecità, non sono più quelli di prima: cadute le squame di tante umane presunzioni, Paolo vede due realtà misteriose: Cristo e la Chiesa. Sono le visioni che gli riempiono la vita.
E da questa esperienza traumatizzante Paolo esce nuovo: non è più Saulo, ma Paolo, è di Cristo ed è della Chiesa.
Però non possiamo dimenticare che questa conversione avviene nella realtà più ampia di un mistero che Paolo conosce già e che la sua superbia di Israelita ha stravolto. Egli capisce che Gesù non è venuto a sconfiggere Israele, che non è venuto a condannare, ma a salvare.
Il mistero di Dio allora, per l'israelita Paolo, non solo rimane intatto, ma si illumina! E non a caso sarà proprio lui a scrutare più profondamente questo mistero dell'alleanza, questo privilegio del popolo eletto, affermandone la continuità e, nello stesso tempo, aprendolo a una visione universale.
Tutto questo senza meccanismi intellettuali, senza mediazioni teologiche, senza analisi comparate delle cose. È la pienezza della conversione.
Non si può tuttavia dimenticare che tutto è originato dall'incontro violento con Cristo, un incontro di cui Paolo non ha preso l'iniziativa, e che lo ha sconvolto. Quando ne parlerà dirà che è stato afferrato da Cristo, senza mai dimenticare il senso della violenza del Signore che lo fa suo.
Questo incontro così determinante, così irreversibile, così plenario nella sua vita nasce lì, sulla polvere della strada. E dall'inseparabile esperienza della comunità cristiana, cioè della Chiesa in cui Paolo viene immediatamente inserito, impara a chiamare fratelli gli avversari, impara a credere nella missione della comunità e tutto questo avviene subitaneamente e definitivamente. Il resto della vita sarà sempre alimentato, influenzato ed illuminato da questa fondamentale ed esaustiva esperienza dell'incontro con il Signore Gesù.
A sottolineare quanto ciò sia significativo per Paolo basta la constatazione che quando parla della sua missione apostolica e ne difende la legittimità, pur chiamandosi l'ultimo, "tamquam abortivus", pur sentendosi l'ultimo, riferisce tutto a Cristo: "Anch'io ho visto il Signore! Anch'io ho incontrato Gesù, anch'io l'ho conosciuto, e anch'io ho ascoltato la sua voce". È veramente qualcosa di plenario quello che è avvenuto in S. Paolo; è la conversione operata, certo, da Gesù, ma alla quale si è arreso e ha risposto in pienezza di vita.

Subito dopo questo avvenimento plenario, definitivo a cui non c'è più niente da aggiungere, perché Paolo dirà sempre di non sapere altro che Cristo, stando al racconto degli Atti, il suo primo gesto è lo "scomparire" nel deserto. Ha incontrato Cristo, ha incontrato la Chiesa e ora scompare nel deserto.
Questa permanenza di Paolo nel deserto, uno dei temi privilegiati dell'antico monachesimo egiziano - vi sono stupende pagine a questo proposito - rimane tuttavia un fatto un po' misterioso, anche perché le circostanze storiche ci sfuggono; quale deserto, per quanto tempo?
Abbiamo tutto un insieme di dettagli a noi sconosciuti; però, è importante che sia proprio questo il suo primo comportamento, la sua prima scelta di convertito da Cristo.
D'altra parte questa esperienza del deserto è abbastanza congeniale a tutta la vicenda di Paolo: il suo è un popolo che si può dire nato dal deserto; tutti i grandi protagonisti della sua storia ne hanno fatto l'esperienza. Anche Gesù.
Che cosa avrà fatto Paolo nel deserto? Siamo autorizzati a pensare che l'abbia vissuto non soltanto come spazio geografico e ambientale, ma soprattutto come fatto biblico; tutta la significatività del deserto nella storia del popolo eletto e in quella di Cristo, in Paolo avrà avuto una conferma, una ulteriore realizzazione.
In seguito, pur sapendo di essere stato scelto da Cristo senza mediazioni di nessuno, non dimentica di essere stato mandato alla Chiesa; la sua prima sollecitudine allora è quella di incontrare gli apostoli.
Non li vede tutti, ma vede Pietro; e la forza con cui proclama di avere visto Pietro e in Pietro gli apostoli è significativa per lui e per noi, perché da questo aver visto e ascoltato gli apostoli oltre che Cristo egli deriva la legittimità della sua missione.
Ora che il Signore l'ha convertito, ora che le tenebre e la luce del deserto lo hanno maturato, ora che il sigillo della fraternità apostolica si è stampato nel suo cuore e nella sua vita egli può precisare fino in fondo la sua identità; è un mandato da Cristo, anche lui apostolo, anche lui testimone.
Non ha condiviso la vita terrena con Gesù, però ha visto il Signore e ha visto gli apostoli; questo è il "viatico" della sua missione. Egli, "ultimo e abortivo", è reso "vaso di elezione".

In questa prima riflessione sulla conversione di Paolo possiamo intravedere tante cose che ci riguardano.
Prima di tutto l'incontro personale con Cristo: la conversione nasce qui. E su questo ci dobbiamo interrogare.
Paolo non ha parlato di Cristo per sentito dire. Ha parlato di Cristo perché lo ha visto, perché lo ha conosciuto, lo ha capito, perché è stato amato da Cristo, perché ha amato Cristo e perché a lui si è consegnato vivo. Questo incontro è una realtà inesauribile. È avvenuto sulla strada di Damasco, d'accordo, però la vita di Paolo non è stata una conseguenza, ma la continuazione di quell'incontro. E tutta la passione con la quale ha continuamente proclamato Cristo, gli ha reso testimonianza, lo ha amato, è proprio il segno che l'attualità dell'incontro col Signore è fondamentale perché il mistero di ogni conversione sia autentico e pieno.
Domandiamoci allora: ma io ho incontrato Cristo sul serio, oppure lui rimane un'immagine, una figura retorica, un punto di riferimento analogico? È vero, leggiamo dappertutto che gli apostoli hanno incontrato il Signore ... che il Signore si è manifestato a Tizio e a Caio; che i santi se ne sono innamorati in una maniera folle... Figure? No! Nella vita di un cristiano l'incontro con Cristo non può essere una figura.
Ebbene, tutte le volte che noi, riflettendo sulla nostra vita, sulla nostra identità, sul significato della nostra presenza nel mondo facciamo riferimento a Paolo che si converte e che incontra Cristo, rendendolo la ragione di tutto, non possiamo limitarci a dire "beato lui"! Beato lui, certo, e noi? La conversione di Paolo è sempre stata ritenuta un fatto emblematico, cioè un avvenimento che riguarda tutti noi, che rivela il mistero a tutti noi, dove la gratuità e la potenza del Signore si mescolano alla fedeltà e alla corrispondenza dell'uomo.
Un'altra considerazione che mi sembra fondamentale è che la missione di Paolo nasce dalla sua conversione e ha in essa non soltanto i precedenti storici, ma le sorgenti misteriche. Questo rapporto tra conoscere Cristo ed essere da lui mandati, è una delle cose più preziose della fede cristiana e anche della nostra identità di discepoli del Signore.
A volte si sente dire che "sì, la contemplazione va bene ... ma oggi sono i tempi dell'azione... È inutile star lì con la testa tra le nuvole, bisogna fare! Buttiamoci nei problemi umani e il resto lasciamolo perdere, che non è per la nostra stagione". No! Quando Cristo nella nostra vita rimane un ricordo, noi non siamo più a posto! Cristo non può essere un ricordo per un apostolo! Potrà essere una "memoria" nel senso biblico, cioè una realtà che si attualizza ogni giorno. E allora il rapporto tra missione e conoscenza di Cristo diventa uno dei rapporti costitutivi ai quali dobbiamo fare continuo riferimento e sui quali ci dobbiamo interrogare.
Paolo, nel deserto, è già apostolo. Come lo è Gesù che prega sul monte; è apostolo, è nel vivo della missione. Questa polarizzazione, diremmo cosi, dell'incontro con Cristo e della missione per Cristo, che noi possiamo continuamente analizzare in Paolo, ci ricorda che anche per noi questo è il problema. Anche per noi questa è la vita; anche per noi questo è l'itinerario.
E ciò spiega perché in fin dei conti la nostra identità di cristiani non è mai consumata: perché incontrare Cristo fino ad esaurire la conoscenza e l'accoglienza del mistero non è possibile! È un cammino che non finisce mai. Allo stesso modo la nostra missione non può finire, proprio perché siamo mandati ad annunziare Cristo, che non potrà mai essere annunziato adeguatamente, che non esaurirà mai il suo contenuto di salvezza e di speranza per il mondo.
Ecco allora perché questa nostra fisionomia interiore, e questo dinamismo specifico di chi ha conosciuto il Signore e di chi da lui, nella Chiesa, è mandato, deve diventare un punto di riferimento sempre fondante per i nostri criteri e le nostre valutazioni.
Tutto ciò mi pare equivalente al dire che la conversione, intesa appunto come grazia misteriosa, non è riducibile a un tempo, a uno spazio, e a un avvenimento. La conversione è un itinerario di vita: è un camminare, è un andare, guidati da Cristo, a realizzare la sua missione.
Notiamo che nella conversione di Paolo c'è anche questa caratteristica: nessuno degli apostoli è stato pellegrino, è stato viaggiatore, è stato vagabondo come lui. Travolto dal mistero della conversione, non ha avuto più pace, non si è fermato mai! La passione con cui parla di questa sua vicenda di instancabile pellegrino per il regno, documenta come egli sentisse che le risorse e gli imperativi di questo suo andare instancabile per Cristo, venivano di là. Perché Paolo non ha mai dimenticato di essere stato convertito su una strada.
Questo mistero dell'andare, forse gli è rimasto dentro come una specie di connotazione non solo della sua esperienza interiore, ma anche della sua missione, della sua vocazione di Apostolo. "Andate", aveva detto Gesù; Paolo sta andando in direzione contraria; Cristo ne rispetta l'andare, ma lo mette sulla strada giusta e continua a dirgli: "Va!".
E allora le nostre stanchezze dove le mettiamo?
Quando ci rendiamo conto che avremmo più voglia di fermarci un po' che di camminare, dobbiamo domandare a noi stessi se non mettiamo a repentaglio la grazia della conversione.

tratto da MONASTICA 2008/1

amministratore (2009-08-16), ultima modifica: 2015-11-23 (amministratore)
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