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LE GRANDI FIGURE: Dom Romain Banquet / Gli ultimi anniautore: Monastero
Seguendo la parabola comune a molte vite di uomini santi, anche D. Romano, col passare degli anni, mitigò alquanto la sua rudezza. Divenne più indulgente verso le debolezze degli uomini, più incline a compatirle. Ora anche la sua direzione spirituale mirava piuttosto a incoraggiare, a dilatare le anime in una tranquilla fiducia nel dono di Dio. L'applicazione alla preghiera non doveva avere nulla di teso, di tormentato: «cercare Nostro Signore nell'Ufficio Divino, restargli uniti, dolcemente e soavemente; fare questo sforzo senza asprezza né inquietudine».
Quella paternità verso i suoi monaci che sempre aveva avuto, calda e fattiva, nel cuore, ora più facilmente si effondeva in gesti e in parole. Un fratello converso si avvicinò un giorno al suo letto di malato per ricevere una benedizione. Gliela diede: poi, aprendogli le braccia: «Ed ora, figlio mio, alzati ed abbracciami».
Nella foresteria di S. Scolastica presiedeva alla mensa degli ospiti, con una signorilità semplice e squisita. Aveva parole delicatissime per i parenti che venivano a visitare le monache; sapeva comprendere e consolare ogni umano dolore. Conversatore ancora interessante, aveva l'arte di far trovare tutti a loro agio, «mettendosi sempre un pochino più in basso del suo interlocutore; questa sfumatura dava al suo modo di accogliere un invincibile incanto».
Più mite verso gli altri, continuò ad essere implacabile verso se stesso. Negli spasimi dell'agonia, stremato di forze, quando nell'imminenza di comparire, nudo, al cospetto di Dio, ogni uomo diviene più scoperto e più vero, D. Romano apparve il lottatore che era stato sempre. Dalle labbra gli uscivano parole mormorate appena, ma erano ancora di ferro e di fuoco:
« Usque ad mortem - restare fedeli ».
« Ho dato tutto - non voglio tirarmi indietro ».
« Portare la croce, senza piegare ».
Alla Madre Abbadessa di S. Scolastica, quasi rimproverandole manifestazioni troppo umane del suo dolore: «Niente lacrime». Al suo infermiere, continuando a cercare nell'obbedienza la mortificazione della natura decaduta: «La prego, non esiti a darmi degli ordini e a farmi obbedire». E quando questi gli chiese se preferiva restare sulla poltrona o essere adagiato nel letto, con un tono quasi brusco: «Figlio mio, non ho da mostrare preferenze. Un atto di obbedienza è la sola cosa gradita a Dio che sia ancora capace di offrirgli»
Nell'abisso della sua umiltà, implacabilmente, si esaminava, si accusava: «Non so soffrire - Sono un vile». Nonostante che il dolore pesasse già duramente: «Sto ancora troppo bene: devo spogliarmi di tutto, di tutto: la nudità della Croce ».
Dell'acciaio D. Romano ebbe la tempra inflessibile, ma non la freddezza. Amò Dio, la Chiesa, il Papa. Una delle sue ultime gioie di malato fu la benedizione inviatagli da Pio XI.
Alla Madonna aveva affidato fin dagli inizi la sua vocazione, affinché gliene «ottenesse la pienezza»; presso di Lei si era rifugiato a «dilatarsi» nelle ore più difficili e ne «aveva ottenuto immediatamente serenità e forza». Ecco come egli stesso descrive il suo arrivo al Monastero della Pierre-qui-Vire: «La prima cosa che di lontano colpì i miei sguardi fu la bianca statua di Maria che domina il silenzio e gli alberi più alti della foresta. Mi misi in ginocchio per salutare la Madre della mia vocazione e raccomandarle la mia perseveranza. Da allora, al termine di ciascuna delle mie numerose missioni, cercavo sempre di ritornare solo e a piedi, per fermarmi un bel po' davanti a quella immagine benedetta. Non l'ho mai fatto senza che, alzando semplicemente gli occhi, sentissi come una specie di comunicazione stabilirsi tra il Cielo e l'anima mia». La devozione di D. Romano alla Madonna ebbe sempre questo carattere: filiale, semplice, e insieme quasi cavalleresco.
D. Banquet amò la sua duplice famiglia spirituale: di S. Benedetto e di S. Scolastica. Si prodigò senza misura per essa. Novello S. Martino, confessò nel 1928: «Ho fatto a Dio una preghiera: quand'anche avessi già un piede dentro il Paradiso, preferisco che mi rimandi indietro, se Egli giudica che posso ancora esservi utile». Con l' Abbadessa D. Maria Cronier ebbe unione perfetta di mente e di cuore, facendone la confidente di tutti i moti del suo animo, la collaboratrice fedelissima e illuminata del suo programma di Fondatore. Si pensa a Francesco e a Chiara d' Assisi, al Vescovo di Ginevra e a Francesca di Chantal.
Ma chi mai potrà penetrare il segreto del suo amore per Dio? Fin dalla giovinezza aveva fatta sua e per sempre, la spiritualità del Padre Muard, perché l'aveva vista tutta centrata sul divino amore. «Il Padre Muard è rimasto l'ideale della mia vita interiore... Il carattere della santità del Padre Muard è il carattere insieme più diretto, più vasto, più sicuro di tutta la santità cristiana: l'amore di Dio. Basta gettare uno sguardo su tutti i particolari della sua vita per giungere a questa conclusione; muore consumato dall'amore per il suo Dio».
A questo amore: desiderato, perseguito, autenticamente vissuto nella rinuncia a se stessi: a questo «amore santificante, vivificante, capace di trasformare», D. Banquet spronò senza soste se stesso e i suoi figli. «La vita spirituale si suddivide, si distingue in virtù, ha gradazioni innumerevoli, ma nasce tutta dall'amore che Nostro Signore ha per noi e che da noi Egli attende». Per D. Romano infatti «l'amore è il culmine della Regola» e la definizione che S. Benedetto dà del Monastero: «Dominici schola servitii» deve essere tradotta così: «Dominici schola amoris»: la scuola dell'amore di Dio.
D'altra parte solo l'amore può dilatare nella gioia e nella pace una vita tessuta di lotte e di sacrifici. Ricordando il regime durissimo che si era imposto da giovane, l'Abate di En Calcat osservava acutamente: «facendone una pratica di penitenza e non di amore, il mio povero cuore e il mio corpo erano in un cerchio di ferro».
Questo amore, che è radice, norma e premio della vita monastica, D. Banquet lo chiese, per sé e per i suoi, in una preghiera pressante, instancabile. Lo praticò; nonostante ogni ostacolo, a prezzo di maschia energia, in una fiducia senza limiti. Malato, diceva al suo infermiere: « Mi parli dell'amore di Gesù. Vorrei pensarci tutto il tempo»; e negli ultimi giorni, nella voce ormai quasi spenta, non rimasero che queste uniche parole: «Gesù amore, Gesù amore».
Dopo la sua morte i suoi monaci poterono scrivere che il grande Abate aveva realizzato in pieno il monito di S. Benedetto «Prima di tutto: l'amore di Cristo».
Anche l'acciaio, investito dal fuoco, ha una sua fiamma: rossa, bella, avvampante.