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LE GRANDI FIGURE: Il Cardinale Schusterautore: SN
S. Em. il Cardinale Ildefonso Schuster, quando era ancora Abate di S. Paolo fuori le Mura, ebbe per primo l’idea di fondare il nostro Monastero e lo volle con quella tenacia santa che attingeva in Dio la forza e l’amore per superare ogni ostacolo. A due giovanette che si presentarono a lui agli inizi del lontano 1925 per manifestargli timidamente un ideale di vita benedettina che ardeva nel loro cuore e per chiedergli consiglio ed indirizzo, rispose senza esitazione: "Bisogna fondare". Le due interlocutrici si guardarono sgomente. "Sì - continuò l’allora Abate, quasi parlando a se stesso - meglio una fondazione che sette riforme!". E accompagnò le sue parole con un gesto molto energico e significativo. Intanto propose loro di divenire oblate e compì egli stesso il rito semplice e suggestivo dell’ammissione all’anno di noviziato, dopo averle paternamente esortate a fare con amore questo primo passo nella via tanto agognata.
«Bona est oratio cum jejunio» (Tob. XII, 8)
L’Abate aveva una memoria fedele: incontrando or l’una o l’altra delle due aspiranti oblate, le riconosceva subito e chiedeva, senza preamboli, con quel fare semplice che va dritto allo scopo: "Quando si comincia?".
Consacrato Arcivescovo di Milano, non dimenticò la vagheggiata fondazione romana e lasciò la cura di effettuarla all’Abate che gli era succeduto, D. Ildebrando Vannucci , il quale con l’aiuto prezioso di D. Maria Cronier, Abbadessa di Dourgne, poté realizzare il pensiero ed il progetto del suo predecessore.
Tutto questo spiega perché ricordiamo con riconoscenza, venerazione e amore colui che la Chiesa ha innalzato agli onori degli altari.
Quando la Madre Priora della nuova fondazione giunse a Milano, il Cardinale la ricevette benevolmente insieme al piccolo gruppo di monache che l’accompagnava. Dopo brevi, ma profonde parole di augurio che erano tutto un programma di autentica vita benedettina: Monasterium hoc sit quod dicitur, raccomandò che: "le attività esteriori si aggiungessero e non subentrassero a quelle essenziali": accedant et non succedant. Offrì alla Madre un bassorilievo di S. Benedetto che conserviamo ancora oggi in Coro come una reliquia.
Fin dall’inizio seguì con amore la nostra fondazione e solo in cielo sapremo quanto dobbiamo alla sua intuizione, alla sua preghiera, alla sua intercessione. Era il primo a fare gli auguri nell’occasione delle feste. Impossibile prevenirlo, perché era sempre in anticipo. Nell’ultima guerra andò dispersa una preziosa cassetta ove si trovavano i suoi scritti alla comunità: per lo più brevi biglietti, in latino, di una concisione ed eleganza di lingua, che la cedeva solo alla profonda luminosità del pensiero. Una cartolina, ritrovata per caso, ne può fornire l’esempio. È del Natale 1948 (con data postale del 15 dicembre!) e reca nel verso: Precum unione, Natalicia omina, gaudia.
Il nostro venerato Padre non poteva dire più e meglio offrendo alle anime desiderose di Dio quel gaudia finale, lasciato lì come in sospeso perché è impossibile racchiudere in parole umane quello che ha in sé un’impronta di eternità.
Veniva a trovarci quando si recava a Farfa.
Quando lo vedevamo passare nel chiostro ed entrare in Capitolo con quell’atteggiamento tutto suo caratteristico: mani giunte protese in avanti, occhi al cielo, capo inclinato verso orizzonti che non erano di questa terra, si comprendeva il segreto del suo ascendente sulle anime, la ragione di un’attività che sembrava carismatica e che in lui derivava dalla preghiera ed alla preghiera conduceva.
Vita dura era il meno che si potesse dire di quella dell’Arcivescovo di Milano. L’Eminentissimo Cardinale Gerlier, che gli fu amico, così si esprime: « E’ un mal-vivente. Non mangia, non dorme e lavora sempre ».
Fedele all’ Ora et labora benedettino, la sua santità era davvero fatta di preghiera, di lavoro, di mortificazione incessanti.
Egli era debole fisicamente, fin dalla nascita, fin dal noviziato a san Paolo, quando il suo Abate temeva che il fragile organismo non potesse sopportare l’austerità della vita monastica. Invece anche in questo superò i suoi fratelli, tanto che un novizio una volta ebbe a dire al suo Maestro: "Se lei si accontenta di camminare di buon passo, cercheremo di tenerle dietro, ma se vuole volare, la lasceremo solo". Ed egli per incoraggiare il pusillus grex spiegava: "La vita monastica non la viviamo da soli, è il Signore che la vive in noi purché gli rimaniamo vicini; allora anche le sue austerità divengono soavi... Dio è felicità e chi aderisce al suo beneplacito partecipa anche al suo gaudio infinito".
Con la verità non sopportava né compromessi, né accomodamenti, si trattasse di bambini, di monaci, di clero, di popolo. La diceva piano e forte, anche ai potenti, senza lasciarsi distogliere dal timore di perdere il loro appoggio o la loro amicizia. Nemico delle sovrastrutture, cercava di snidarle e correggerle ovunque e non vi era allora fatica che gli sembrasse superflua.
Aveva sempre il coraggio delle sue opinioni; non voleva essere rimproverato da Dio di aver taciuto per timore o per viltà. Questo spiega la lieve nota polemica che si trova qua e là nei suoi scritti e nei suoi discorsi, significativa del suo ardore e della sua intrepidezza.
Il suo occhio limpido, mansueto, purissimo era lì ad indicare che anche nello splendore della porpora il cardinale Schuster conservava sempre il candore ingenuo della sua fanciullezza e l’umiltà del monaco.
Fu sempre molto amato dai Pontefici che ne compresero il valore singolare e godettero della sua filiale, delicatissima sottomissione.
Al momento della sua nomina ad Arcivescovo della metropoli lombarda, Pio IX poteva dire ai milanesi accorsi a Roma: "Sebbene abbia tutti i poteri del Vicario di Cristo, io non avrei potuto fare di più per voi" e ai seminaristi : "Contentate il vostro Arcivescovo allo stesso modo che egli ha accontentato me".
Il cardinale Schuster poteva contentare il Sommo Pontefice, il dolce Cristo in terra, come aveva sempre contentato tutti i suoi Superiori, perché cercava davvero Dio e non se stesso. Con la preghiera, è questo il segreto della sua santità, o meglio, uno dei segreti che la preghiera gli aveva rivelato.
La santità, egli la desiderava con tutte le forze perché sapeva che tale è il volere di Dio per ogni cristiano: Haec est voluntas Dei: sanctificatio vestra. La voleva, perché aveva capito che si giova agli altri non tanto per quel che si dice, quanto per quel che si è. « Il mondo non crede più a niente, egli scriveva, ascolta e crede solo alla santità » ed ecco perché voleva farsi santo, perché amava tanto i santi, e a Milano li faceva uscire dal loro silenzio per offrirli sugli altari alla pietà dei fedeli. Quasi a definire il suo zelo, il suo vigile occhio di Pastore, cui nulla sfuggiva, i buoni milanesi solevano dire di lui: "Non lascia stare neanche i santi che dormono da secoli nelle loro urne".
Non era ostile ai moderni metodi di apostolato, l’Arcivescovo di Milano, ma ai suoi Parroci ripeteva spesso: "Le anime si salvano non tanto con lo sport, col cinema, con le partite di calcio, ma con la santità vostra. Se è necessità che dobbiate occuparvi e usare di questi mezzi, riteneteli come semplici mezzi. Fatevi santi e salverete le anime".
E precedeva sempre con l’esempio. Dopo un istante di dolorosa sorpresa dinanzi a circostanze e atteggiamenti che lo riguardavano molto da vicino e che potevano colpirlo nell’onore e nella stima del suo popolo, assicurava coraggiosamente: "lo dico quello che affermava D. Orione (che si era trovato nella medesima situazione): ritengo questa come una delle grazie più belle che il Signore mi abbia fatto in vita mia".
Indifferente per quel che lo riguardava personalmente, sapeva far valere la sua autorità quando si trattava di difendere i diritti della Chiesa e si imponeva senza discussione. Dopo aver deposto in favore di due suoi Sacerdoti ingiustamente processati, ai giudici, i quali gli facevano osservare che una sola testimonianza non basta, rispondeva fieramente che, secondo il Diritto Romano, i testimoni: non sunt numerandi, sed ponderandi".
Dinanzi all’ingiustizia, ad ogni ingiustizia, si ergeva forte e severo come l’antico Ildebrando (il Papa Gregorio VII); lo si sentiva allora astratto e lontano, volutamente freddo; con parole misurate ma non attenuate, faceva risplendere senza metafore e senza perifrasi, quella verità che gli era così cara e che nella sua voce flebile, ma acuta e penetrante, aveva un suono schiettamente genuino. In questi casi la sua sincerità era spietata. Ebbe, ad esempio, parole brucianti contro il neo paganesimo invadente la sua Milano, l’Italia, il mondo, e i suoi richiami chiarissimi, accorati, severi, ma ardenti di carità e di zelo, scuotevano le coscienze anche dei lontani. La sua figura, macerata dalle penitenze, infiammata di castissimo amore, trasfigurata dalla luce interiore che lo guidava, era ancora più efficace della sua parola.
Quando era possibile, più che parlare, ascoltava. Il suo animo, come il suo occhio rimaneva fisso in Dio e da Lui traeva per i figli direttive nette, larghe d’incoraggiamento e di conforto, suscitatrici di energie latenti.
E più che agli uomini parlava a Dio: lo ascoltava, lo seguiva con tutto l’amore, con tutte le forze, non curante della fatica. Aveva tutto sacrificato, tutto offerto a Lui: anche i suoi studi storici, liturgici non erano semplicemente l’opera di un erudito, ma mezzo di apostolato e di penetrazione nei vari ceti sociali, perché a suo parere: "Ogni cosa, all’infuori di Dio impoverisce l’anima e la isterilisce". Vedeva tutto dall’alto: sub specie aeternitatis. "Dai tetti in su" era una sua espressione favorita.
Sensibilissimo al dolore degli altri, specie al momento della seconda guerra mondiale, conservava però sempre la pace serena dell’anima che, intenta a Dio, trascende le umane vicende. Negli occhi dei figli angosciati ritrovava le sembianze del Cristo: uno stesso amore lo univa ad essi ed al suo Gesù Crocifisso. Non si perdeva allora in inutili lamenti. Come egli stesso scriveva: "Non è tempo di fare delle deprecazioni: bisogna rimboccare le maniche e mettersi subito al lavoro con grande fiducia in Dio". Animato da questa fiducia il 24 marzo1945 poteva scrivere: "Cristo è la nostra Pasqua e dove è Cristo è Pasqua, anche se fuori infuria la guerra".
Lo vedevamo a Santa Scolastica una o più volte l’anno. Venne anche nel 1954. Era vicino al tramonto, ma il portamento, lo sguardo, che aveva conservato l’incanto della sua angelica infanzia, erano sempre quelli. La sua voce echeggiò per l’ultima volta nella nostra sala Capitolare: quella voce rivelatrice di un' anima sempre protesa verso le cime, come i suoi occhi, che avevano trasparenze di cielo, come le sue mani, giunte e benedicenti. Atteggiamento sereno, umile e orante.
In tutti i campi della sua prodigiosa attività, aveva abusato delle sue forze. A chi glielo faceva osservare rispondeva con un sorriso:"Che volete...son fatto così" e soggiungeva: "Se non posso continuare come ho fatto sinora, mi ritiro al mio san Paolo". Invece il Signore gli concesse quasi fino all’ultimo giorno di "poter servire ancora giovanilmente la Chiesa" come egli stesso riconosce, con gratitudine in una lettera dell’11 Aprile 1954 alla sorella, Figlia della Carità.
Fino alla fine cercò di evitare i rimedi umani. Avrebbe potuto dire con sant’ Agata: Medicinam carnalem numquam, exhibui. Ai medici, ai segretari, ai suoi più fidi che, impressionati dell’eccessivo deperimento, gli chiedevano che cosa si poteva fare per lui, rispondeva con arguzia: "Datemi un bicchierino di...Niente". Era la sua medicina abituale.
Dopo la celebrazione del Santo Sacrificio in Duomo dinanzi a 20.000 bambini, in occasione del 50° di sacerdozio, esclamò: "Ora le feste umane sono compiute, non resta che prepararsi ai funerali e quindi all’eterna festa".
Ebbe il presentimento della sua morte, ne precisò perfino l’ora. Al segretario che gli annunciava il ritorno a Milano per le 5 del giorno seguente, rispose enigmaticamente: "Io partirò prima delle 5". La sera stessa infatti verso le 23,30 chiese e ricevette i sacramenti.
"È un collasso, Eminenza, è una crisi che passa" gli diceva il medico. "Sì, sì, il collasso passa, ma io muoio" rispose il Cardinale, con il solito sorriso arguto. Poi facendosi grave: "Muoio, aiutatemi a morire bene" e ancora: "Non temo di morire, perché so di avere un giudice buono".
In quella domenica, 29 Agosto, egli aveva come sempre, recitato Mattutino del giorno seguente. Spirò alle 4 del Lunedì, all’ora in cui nella cappella dell’Arcivescovado o nelle varie chiese parrocchiali della Diocesi ove si recava, nell’ininterrotta Visita pastorale, era solito iniziare l’ora di Prima del Divino Ufficio. Era proprio il momento di intonare: Iam lucis orto sidere.
Sua Santità Giovanni XXIII, allora Cardinale Roncalli, disse di lui dopo la morte: "Lo storico avrà una messe sovrabbondante per la glorificazione delle virtù monastiche e pastorali di questo ecclesiastico di eccezione che la voce del popolo ha chiamato "santo" e che tale è stimato presso i suoi intimi".
tratto da MONASTICA 2009/2